La parola disagio (non agio) significa non sintonia con l’ambiente, etimologicamente parlando il disagio è una condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di salute. In ambito scolastico questa è in qualche modo un esperienza particolare con l’alunno. L’insegnante deve essere in grado di leggere il disagio ed interpretarlo, deve essere affrontata dalla scuola con degli interventi.
La scuola è ritenuta responsabile della formazione, in quanto nel fornire la formazione la scuola deve essere in grado di aggradare questo disagio e rispondere in modo costruttivo.
L’integrazione, l’inclusione e l’educazione scolastica degli alunni con disabilità rappresentano lo fase finale di un lungo e lento processo normativo, che vede un primo importantissimo passo a partire dalla fine degli anni sessanta, quando gli alunni con disabilità che prima frequentavano le classi differenziate, entrarono a far parte delle classi degli alunni normodotati. La legge quadro 104/1992 ha rappresentato un vero e proprio passo in avanti in materia di integrazione scolastica degli alunni con disabilità ed ha posto le basi per la tutela di numerosi diritti e per la garanzia di un’assistenza adeguata. L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità ha posto in rilievo nuove problematiche connesse alla strategie educative e didattiche adottate dai docenti nel processo di insegnamento/apprendimento.
A partire dall’analisi di queste problematiche si è avuto lo sviluppo della cosiddetta Didattica Speciale, ovvero della didattica orientata a raggiungere efficacemente gli alunni che presentano disabilità o più in generale, degli alunni con particolari problemi di apprendimento. Nella scuola moderna, la didattica speciale diviene parte integrante del bagaglio culturale del docente curriculare, che possiede anche le competenze necessarie per favore l’integrazione nel gruppo/classe degli alunni con disabilità, nonché la conoscenza delle strategie e metodologie didattiche atte a garantire lo sviluppo del potenziale dei propri discenti, tenendo conto dei diversi livelli cognitivi e delle peculiarità culturali e relazionali di ciascuno. Sul piano culturale, l’inclusione degli alunni con disabilità, ha portato alla definizione della discriminante “alunni con disabilità/alunni senza disabilità”.
Un apporto significativo per il superamento di tale discriminante è stata l’adozione del modello diagnostico International Classification of Functioning (ICF), stilato da OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, che considera gli individui nella loro globalità, in una visione bio-psico-sociale. Questo tipo di classificazione si dimostra utile in ambito educativo, in quanto contribuisce, di fatto, all’individuazioni di studenti con “bisogni educativi speciali” e non di studenti con disabilità. In questa visione, viene superata la discriminante tradizionale “alunni con disabilità/alunni senza disabilità”.
La parola inclusione è entrata da poco nel nostro sistema educativo e questo è avvenuto, principalmente, per adeguarsi alla terminologia internazionale.
In molti paesi europei, infatti, si usa il termine inclusion per indicare, in generale, un processo che porta all’istruzione degli alunni con disabilità nelle classi comuni, quindi sostanzialmente simile alla nostra integrazione (da osservare, d’altro lato, che integration è una parola collegata praticamente ovunque all’immigrazione).
Sarebbe riduttivo, e probabilmente inutile, usare inclusione come sinonimo di integrazione, o di integrazione di qualità, anche se certamente tra i due termini non c’è la frattura logica e culturale che ha segnato il passaggio da inserimento a integrazione.
L’inclusione deve essere intesa come un’estensione del concetto di integrazione che coinvolge non solo gli alunni con disabilità, formalmente certificati, ma tutti i compagni, con le loro difficoltà e diversità. Oggi, nella scuola italiana, si presta particolare attenzione agli alunni con Bisogni Educativi Speciali, ossia in generale a coloro che per vari motivi, anche temporanei, non rispondono in maniera attesa alla programmazione della classe e richiedono, quindi, una forma di aiuto aggiuntivo.
Vi è una comunque una differenziazione tra “integrazione” e “inclusione”. In questi anni, il vocabolo «inclusione» ha cominciato gradualmente a sostituire a anche nei documenti e nei discorsi formali e informali quello tradizionale di «integrazione».
L’idea di integrazione muove infatti dalla premessa che è necessario fare spazio all’alunno disabile all’interno del contesto scolastico. Alla base di tale prospettiva rimane un’interpretazione della disabilità come problema di una minoranza, a cui occorre dare opportunità uguali (o quanto meno il più possibile analoghe) a quelle degli altri alunni. Il paradigma a cui fa implicitamente riferimento l’idea di integrazione è quello «assimilazionista», fondato sull’adattamento dell’alunno disabile a un’organizzazione scolastica che è strutturata fondamentalmente in funzione degli alunni «normali», e in cui la progettazione per gli alunni «speciali» svolge ancora un ruolo marginale o residuale. All’interno di tale paradigma, l’integrazione diviene un processo basato principalmente su strategie per portare l’alunno disabile a essere quanto più possibile simile agli altri. Il successo dell’appartenenza viene misurato a partire dal grado di normalizzazione raggiunto dell’alunno. La qualità di vita scolastica del soggetto disabile viene dunque valutata in base alla sua capacità di colmare il varco che lo separa dagli alunni normali. Ora, non solo è improbabile che questo varco possa essere effettivamente colmato (con il carico di frustrazione che da ciò inevitabilmente deriva), ma soprattutto è l’idea stessa che compito del disabile sia diventare il più possibile simile a una persona normale a creare il presupposto dell’esclusione. Porre la normalità (qualunque cosa essa sia). Come modello di riferimento significa infatti negare le differenze in nome di un ideale di uniformità e omogeneità.
Viceversa l’idea di inclusione si basa non sulla misurazione della distanza da un preteso standard di adeguatezza, ma sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti. Se l’integrazione tende a identificare uno stato, una condizione, l’inclusione rappresenta piuttosto un processo, una filosofia dell’accettazione, ossia la capacità di fornire una cornice dentro cui gli alunni a prescindere da abilità, genere, linguaggio, origine etnica o culturale.
L’Index per l’inclusione è uno degli strumenti che la circolare ministeriale n.8/2013 indica ai fini della rilevazione, del monitoraggio e della valutazione del grado di inclusività della scuola. Si tende al “graduale superamento della nozione di Bisogni Educativi Speciali. Secondo Booth e Ainscow – gli autori dell’Index per l’inclusone- parlare di alunni con Bisogni Educativi Speciali rappresenta il primo passo di un processo che conduce all’etichettatura di alcuni alunni, e conseguentemente a un’implicita riduzione delle attese educative nei loro confronti: se il punto di partenza sono i limiti, diviene difficile pensare per potenzialità, e tenere presente che queste sono potenzialmente illimitate”. Risulta evidente che ci troviamo di fronte ad un altro punto estremamente critico delle nuove disposizioni in materia di bisogni educativi speciali.
Se la scuola assume come proprio il modello sociale dell’Index, che tra i suoi concetti chiave reca quello della rimozione degli ostacoli alla partecipazione e all’apprendimento, allora, occorre abbandonare il riferimento ai Bisogni Educativi Speciali e ritenere che la disabilità e lo svantaggio non siano dentro lo studente, ma siano il prodotto del contesto culturale.